4. L’immediatezza democratica

Se guardiamo alla recente storia francese, vediamo il volto del capo delinearsi nei suoi tratti più seducenti, e insieme più subdoli. Ha occhi azzurri, fronte ampia, la mascella squadrata, dura, i lineamenti quasi spigolosi. Viene da Amiens, dalla provincia. A 20 anni è assistente del filosofo Paul Ricoeur, passati i 30 è banchiere d’affari presso Rotschild, ora ne ha 40 ed è presidente della Repubblica francese.

Per farsi eleggere, Macron ha approfittato della configurazione del sistema elettorale francese. Al secondo turno delle presidenziali si trova di fronte Marine Le Pen, candidata del Front National: destra “estrema” e “populista”. Secondo uno schema che abbiamo sentito riecheggiare anche in Italia, il voto diventa questione di vita o di morte: civiltà contro barbarie. La République fa appello a tutte le sue energie e vince la civiltà con il 66%. Siamo salvi.

Alla vigilia delle elezioni, nessuno avrebbe scommesso su questo esito. Macron non ha alle spalle un grande partito, un apparato politico collaudato. Certo, nelle vesti di ministro dell’economia è transitato per il governo socialista di Hollande, ma fiutando la mala parata ha abbandonato in tempo la nave e nell’aprile 2016 ha fondato un suo movimento, En Marche. Che abbreviato diventa EM – Emmanuel Macron. Stando al sito, En Marche conta attualmente più di 392.000 membri.

Il narcisismo è sicuramente una componente fondamentale del fenomeno Macron. Alla fine del 2017 lo scrittore francese Emmanuel Carrère ha trascorso una settimana con lui: dal reportage che ha scritto emerge il ritratto di un uomo che fondamentalmente vuole piacere, e sa come farlo.

Ogni interazione con Macron obbedisce allo stesso protocollo. Ti guarda negli occhi con il suo sguardo blu e penetrante e non lo distoglie mai. La mano, invece, te la stringe in due tempi: prima con una stretta normale e poi, come per mostrare che la stretta non è né distratta né meccanica, accentua la pressione mentre aumenta l’intensità del suo sguardo […]. Con l’altra mano ti tiene il braccio o la spalla e, quando arriva il momento di lasciarti, allenta la stretta attardandosi, quasi con dispiacere, come se l’interruzione di un incontro in cui ha messo tutta l’anima gli spezzasse il cuore. Questa tecnica funziona a meraviglia con i suoi ammiratori, ma è ancora più spettacolare con gli avversari. […] Chi ha lasciato che Macron gli stringesse la mano è perduto per l’opposizione: voterà fatalmente per lui, è destinato a convertirsi al macronismo.

EM sa muoversi su registri molto diversi. Il 10 dicembre 2016 tiene un discorso a Parigi, di fronte a migliaia di persone. Il finale è in crescendo: non parla più, grida, dichiara il suo amore per la Francia, per la Repubblica, per tutti i marcheurs che lo stanno accompagnando. Allarga le braccia, alza gli occhi al cielo, gira su se stesso tra applausi sempre più fragorosi finché comincia a risuonare la Marsigliese e la tensione si scioglie nel canto comune, nell’abbraccio materno della patria.

Un anno dopo è ad Atene, alle spalle l’Acropoli e il tramonto di fronte. Sorprende tutti e inizia parlando in greco, conclude citando Hegel e il poeta greco Seferis, vola alto, non è solo politica, è la storia che si sta facendo in diretta. Applausi.

Ora, l’irresistibile ascesa di Emmanuel Macron non ci parla solo del narcisismo, della possibilità di identificarsi con un capo che sia come noi (anche perché Macron non è come noi, è meglio – come affermò Nicolas Sarkozy). La sua parabola rende visibile anche qualcosa di più, una tendenza del resto esplicitamente annunciata da Macron all’inizio del suo percorso e poi più volte ribadita.

Penso che le divergenze [clivages] siano divenute obsolete.

La divergenza destra-sinistra oggi ci ostacola.

Penso che con questo movimento possiamo rifondare dal basso, in maniera sincera, autentica, vera.

[Macron ad Amiens, 6 aprile 2016, prima presentazione di En Marche]

Se può farci sorridere che un banchiere d’affari, perfetta espressione della classe dirigente francese, affermi di voler rifondare la politica “dal basso”, conviene invece soffermarsi sugli altri passaggi. Macron si pone oltre le distinzioni, che reputa dannose: il problema sta nel ridare vigore e dinamismo alla Francia, “un paese bloccato”. I passi concreti con cui realizzare questo condivisibile obiettivo non sono oggetto di discussione. Come fare è ovvio: ce lo dice il senso comune. (Curiosamente, le mosse del primo anno di governo vanno in una sola direzione: misure a favore delle imprese, riedizione della Loi Travail, già duramente contestata pochi anni fa, abolizione della patrimoniale per i redditi da capitale, indebolimento dei corpi intermedi a favore dello Stato, restrizione dell’accesso all’università, assenza di fondi per le banlieues, intervento militare in Siria). Questo approccio si è rispecchiato nitidamente in un passaggio molto delicato dello sviluppo della nuova creatura politica. Il 19 gennaio 2017 En Marche ha infatti aperto le selezioni per trovare i 577 candidati da presentare alle elezioni. Cinque i criteri che l’apposita commissione (di cui Macron non fa parte) valuterà: rinnovamento – metà dei candidati devono essere alla prima esperienza politica; parità di genere; probità – il casellario giudiziario deve essere immacolato; pluralità “economica” – in pratica, se tutte le provenienze politiche sono ammesse, destra e sinistra, centristi ed ecologisti, nelle liste la loro composizione sarà comunque equilibrata. Infine il quinto, che conviene riportare per come Macron l’ha presentato nel suo discorso del 19 gennaio:

L’efficacia e la chiarezza: tutti i candidati selezionati firmeranno lo stesso contratto con la nazione che ho firmato io. Così nessun candidato selezionato potrà esprimere disaccordo con il cuore del nostro progetto, che porterà chiaramente davanti ai suoi elettori. Per contro, il nostro movimento è ricco di diversità, che è al contempo la sua forza di unione.

EM si pone apparentemente sullo stesso piano dei suoi candidati. Tutti, l’uno e gli altri, firmano un contratto con la nazione, che però ha scritto Macron e che vincola a ciò che lui ha deciso. Dunque efficacia e chiarezza sono gli obiettivi di questo quinto criterio: se l’efficacia sta nel fungere da cinghia di trasmissione di un messaggio concepito e costruito in altra sede, la chiarezza si arresta al vertice della catena di comando, nel punto cieco che sovrasta il movimento. Qui, tutto diventa confuso. Il corpo del leader e lo sguardo, le sue grida davanti alla folla a Parigi, la sua stessa brillantezza: tutto concorre a schermare e rendere opaco l’intrico di mediazioni che ne sostanzia la politica. Il movimento esiste solo in funzione del suo fondatore, e a questa idea va ancorata la sua strutturazione. L’organizzazione del movimento deve semplicemente funzionare, senza fastidiosi intoppi lungo l’asse verticale di trasmissione degli input, adottando una configurazione precisa ma unicamente dal punto di vista formale: i criteri della parità, probità, novità, pluralità definiscono il contenitore, non il contenuto. Così come il movimento deve semplicemente permettere alla società di funzionare bene, senza clivages tra destra e sinistra, tra differenti interessi e concezioni del mondo e della società.

IL CORPO DEL LEADER E LO SGUARDO, LE SUE GRIDA DAVANTI ALLA FOLLA A PARIGI, LA SUA STESSA BRILLANTEZZA: TUTTO CONCORRE A SCHERMARE E RENDERE OPACO L’INTRICO DI MEDIAZIONI CHE NE SOSTANZIA LA POLITICA

D’altronde, che la verticalità fosse un carattere distintivo della sua concezione della politica Macron l’aveva messo in chiaro dichiarando, ancora prima di essere eletto, di voler essere un presidente “jupitérien”. Il termine non è traducibile, ma Jupitér è Zeus, Giove, padre e re di tutti gli dei. In interviste successive ha aggiustato il tiro, spiegando di intendere la presidenza della Repubblica come “chiave di volta” dell’intero ordinamento costituzionale francese; di conseguenza un ruolo da occupare sottraendosi alla mischia quotidiana della bassa politica, del giornalismo, delle contestazioni, in direzione di una imperturbabilità olimpica. Certo rimane il dubbio che semplicemente si senta figlio di Giove, onnipotente e da tutti amato. E come un altro figlio di Zeus, come Alessandro, Macron non promette di sciogliere, con pazienza e applicazione, il nodo di Gordio dei problemi economici e sociali, ma di tagliarlo di netto, tuttalpiù aiutato da qualche centinaio di fidi deputati.

A un anno dall’elezione la seduzione comincia a venire meno. Le divergenze crescono, il dorso della società francese si rivela frastagliato, diviso, insoumis. In fondo, Macron non può stringere la mano a tutti i francesi e il dispiegarsi concreto della sua presidenza dirada sempre di più l’ombra che si estendeva alle sue spalle. Pierre Joxe, vecchio socialista già ministro degli Interni e della Difesa sotto Mitterrand, commentando l’affermazione “jupitérienne” ha sentenziato che la presidenza di Macron sarebbe stata piuttosto “hérmetique”, ermetica: non perché difficile o legata a correnti poetiche novecentesche, ma perché Hermes era il dio protettore di commercianti, banchieri, ladri. Cominciamo a intravederne i profili.

In Italia non abbiamo visto niente del genere, la nostra vita politica non vede impegnati né Zeus né Hermes, ma l’immediatezza democratica si è incarnata in un altro fenomeno dalle ascendenze antiche e classicheggianti. Quando si parla di immediatezza, infatti, la prima immagine che viene in mente è quella dell’assemblea, nella sua versione greca (l’agorà) o contemporanea (l’aula universitaria occupata): nell’assemblea un voto pesa davvero, le persone sono obbligate a guardarsi in faccia, ad argomentare la propria posizione, a dar conto delle azioni compiute. Davanti all’assemblea, nel momento dell’esercizio del potere attraverso il voto, si è nudi: origini, posizione nel mondo, intelligenza una volta giunti al voto non contano più.

QUANDO SI PARLA DI IMMEDIATEZZA, INFATTI, LA PRIMA IMMAGINE CHE VIENE IN MENTE E’ QUELLA DELL’ASSEMBLEA, NELLA SUA VERSIONE GRECA (L’AGORÀ) O CONTEMPORANEA (L’AULA UNIVERSITARIA OCCUPATA)

L’immagine dell’assemblea ateniese ha costituito il mito fondativo delle democrazie occidentali, in un processo di idealizzazione che ha le radici nel classicismo francese del primo Settecento. Il meccanismo contemporaneo è frutto di scontri secolari, condotti da posizioni opposte sotto vari punti di vista: posizione aristocratica, antiegalitaria e contraria al suffragio contro democrazia borghese; a sua volta messa in discussione da sinistra, con la proposta di altre forme di potere, come quello consiliare (il soviet), ecc. Ad ogni modo, una legge ferrea pende su qualsiasi concezione democratica: maggiore sarà l’estensione, maggiori saranno le deleghe. Le ragioni sono di carattere quantitativo (è impossibile riunire l’elettorato in assemblea), ma anche qualitativo (per gestire i problemi di un sistema così esteso è necessaria una specializzazione nei diversi campi).

Fra rappresentanti e rappresentati, comunque, sussiste un legame forte, incardinato a una serie di risarcimenti, sia materiali che simbolici, che sopperisce alla volontaria riduzione del diretto intervento politico. Ad un certo momento però questo legame viene meno: non è più la relazione fra rappresentati e rappresentanti a determinare scelte e direzioni, quanto quella fra rappresentanti e cornice amministrativa, istituzionale ed economica. Il partito si rivela sempre più come contenitore vuoto, al servizio di condizioni esterne. Il quadro non è più modificabile: è la svolta di Veltroni.

L’insoddisfazione per questa situazione si intreccia con lo sviluppo informatico e con le sue tensioni libertarie, provando a recuperare una delle linee di sviluppo che nei passati decenni hanno contribuito a formare e affermare la cultura – e insieme il potere – di internet. Improvvisamente, l’utopia dell’agorà sembra tornare possibile: la piazza di Atene sarà virtuale. In Italia solo il M5S ha impostato la propria esistenza sul problema tecnico delle condizioni di una democrazia diretta, spendendovi parte consistente delle proprie energie. Il vecchio non statuto parla chiaro:

Il MoVimento 5 Stelle non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro. Esso vuole essere testimone della possibilità di realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto democratico al di fuori di legami associativi e partitici e senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi.

Anche qui può far sorridere l’enorme fiducia accordata alle potenzialità tecniche della Rete. Il problema vero si pone però su un altro piano, non riguarda la sostenibilità tecnica di questo progetto (la violabilità delle piattaforme, i criteri di decisione per gli iscritti, la proprietà di Rousseau…). L’idea di un’espressione immediata della volontà di tutti attraverso un’infrastruttura tecnica è infatti in debito con una concezione di assemblea quale spazio decisionale vergine, capace di mettere a confronto le opinioni dei partecipanti in base alla cogenza dell’argomento migliore. Ciò sarebbe possibile solo a patto di considerare un numero ridotto di soggetti, disposti a mettere in discussione il proprio percorso e la propria identità, senza cedere né ai meccanismi automatici dell’assemblearismo né alla convinzione di un suo intrinseco potere salvifico. Il punto centrale è che l’assemblea non possiede una natura immediatamente democratica – o, scusate il bisticcio, immediatamente immediata. Nell’assemblea entrano in gioco gruppi e relazioni preesistenti, personalità, capacità di parlare e di convincere: se tutto questo viene ignorato, i rapporti di potere risultano semplicemente nascosti, anziché venire disattivati. Allo stesso modo, se tutto questo viene ignorato anche la votazione dei partecipanti all’assemblea – fisica o digitale – si riduce a essere una semplice sanzione, una ratifica dell’equilibrio di forze che ha portato all’assemblea stessa. Nel caso dei 5 Stelle l’abbiamo potuto vedere con l’elezione di Di Maio, o con l’approvazione del contratto di governo al termine delle consultazioni con la Lega. Il voto ratifica ciò che era già deciso de facto.

Se la critica si rivolge invece al meccanismo della delega, cercando di esercitare su di esso un controllo il più stretto possibile, alla fine arriviamo comunque a toccare un problema strutturale. I rappresentanti possono certo essere vincolati al mandato specifico che viene loro conferito, possono essere obbligati a non deviare dalla linea del Movimento, ma che fare se poi è il Movimento stesso a vedere la propria azione vincolata dalla forza del contesto in cui è inserito, dalla logica della cornice entro cui la sua politica deve necessariamente dispiegarsi?

IL PUNTO CENTRALE È CHE L’ASSEMBLEA NON POSSIEDE UNA NATURA IMMEDIATAMENTE DEMOCRATICA – O, SCUSATE IL BISTICCIO, IMMEDIATAMENTE IMMEDIATA

Abbiamo intitolato questo articolo Immediatezza democratica. I due esempi, quello del Movimento 5 Stelle e quello di En Marche, ci parlano di fenomeni fra loro diversissimi: da una parte, abbiamo il rapporto immediato, diretto con il leader, attorno cui ruota l’organizzazione del movimento; dall’altra, il rapporto immediato con l’esercizio del potere, costruito tramite una piattaforma informatica capace di ridurre al minimo l’estensione della delega. L’istanza del controllo della delega è all’opera in entrambi i casi, per quanto lungo due direttrici opposte: nel caso francese tutto ruota intorno al centro; in quello italiano il centro è intercambiabile, o addirittura assente (chi comanda? Di Maio, Casaleggio, Grillo, Di Battista?). Al fondo, tuttavia, entrambe le immediatezze annullano lo spazio di azione della politica, e mettono in ombra tutte quelle mediazioni che, attive nella società, vengono considerate come naturali e immutabili. In questo modo è aumentata l’efficienza, non certo la possibilità di partecipazione e di controllo sulla cosa pubblica.

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